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CONOSCIAMO LA NOSTRA LINGUA

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Messaggio  Maribella Lun Ott 10, 2011 8:13 pm

by Sweet
a volte siamo in dubbio per un accento....o sul significato di un modo di dire... o su qualche verbo....
"curiosiamo" un pò nell'italiano?

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Porre e distrarre

Tutti coloro che hanno frequentato un regolare corso di studi sanno (o dovrebbero sapere) che i verbi si raggruppano in tre categorie, chiamate, propriamente, coniugazioni: -are; -ere; -ire.
I verbi il cui modo infinito finisce in -are appartengono, quindi, alla prima coniugazione; quelli il cui infinito termina in -ere alla seconda e infine appartengono alla terza coniugazione i verbi la cui desinenza dell’infinito è -ire: amare; temere; sentire.
Tutto questo preambolo per rispondere a un lettore il cui figlio si è trovato in difficoltà nel risolvere alcuni quiz di natura linguistica per l’ammissione a un corso di specializzazione presso un ente parastatale. Questa, all’incirca – ci dice il lettore – la domanda cui dovevano rispondere i concorrenti: «A quale delle tre coniugazioni appartengono i verbi porre, indurre, tradurre e distrarre?».
Di primo acchito la domanda sembra illogica in quanto nessuno dei suddetti verbi finisce in -are, -ere e -ire. Non c’è dubbio, però, che debbono appartenere a una delle tre coniugazioni. Ma quale? Per saperlo non si può certo ricorrere al sistema della monetina come ha fatto – ci è sembrato di capire – il figliolo del nostro gentile interlocutore.
Non si può, insomma, fare affidamento sulla sorte per quanto attiene alle cose linguistiche perché la lingua – lo si voglia o no – è una scienza. Allora? Ecco venirci incontro il padre della nostra lingua: il nobile latino.
Tutti e quattro i verbi in oggetto sono, infatti, di provenienza latina; basta vedere, quindi, a quale coniugazione latina appartengono e... il gioco è fatto. Esaminiamone uno per uno.
È necessario, però, ricordare che il latino aveva (ha?) quattro coniugazioni divenute tre in italiano perché i verbi della seconda e terza coniugazione che differivano per la e della desinenza -ere – che poteva essere breve o lunga – sono stati raggruppati tutti nella seconda coniugazione. Vediamo, dunque.
Porre è il latino ponere; appartiene, quindi, alla seconda coniugazione. Indurre viene da inducere, anche questo, per tanto, si classifica tra i verbi della seconda coniugazione, come tradurre, da ducere. Distrarre, infine, da distrahere. Tutti e quattro i verbi, dunque, nonostante la diversità delle desinenze dell’infinito si classificano tra i verbi della seconda coniugazione.
Non capiamo, quindi, come un autorevole vocabolario sia potuto incorrere in un grossolano errore collocando distrarre fra i verbi irregolari della prima coniugazione. È interessante vedere, a questo proposito, i vari passaggi semantici di distrarre.
Diamo la parola al DELI: «Voce dotta, latino distrahere, tirare (trahere) di qua e di là. (...) Il significato del latino distrahere è quello rispecchiato dal linguaggio giuridico: distrarre una grossa somma a proprio beneficio. Di qui si dirama il significato più specifico di distrarre la mente da un pensiero, a cui molto più tardi fa seguito la costruzione distrarre uno dalle preoccupazioni, e quindi distrarsi nel senso di divertirsi».
Ma come si è giunti all’accezione usuale di distratto (che è il contrario di concentrato, raccolto, intento, assorto? (...) il Lerch ingegnosamente riconduce questa accezione ai mistici medievali: «distractus è, in origine, colui che gli svaghi esterni distolgono dalla concentrazione in sé stesso e in Dio: è insomma distratto da Dio (...)». Sentiamo, in proposito, anche il Pianigiani etimo.it.
Distrarre, insomma, potremmo dire che vale tirare da un’altra parte. Il cassiere di una banca, per esempio, che distrae una somma di denaro non la tira da un’altra parte, cioè a sé? E sempre a proposito di... distrazione ci piace concludere con un pensiero di Kafka: «La vita è una perpetua distrazione, che non lascia neppure prendere coscienza di ciò da cui distrae».
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Messaggio  Maribella Lun Ott 10, 2011 8:14 pm

Emigrare (essere o avere?)

Molto spesso siamo assaliti da dubbi su quale ausiliare adoperare quando dobbiamo coniugare il verbo emigrare nei tempi composti: sono emigrati o hanno emigrato?

I vocabolari (la maggior parte) e la stampa non ci vengono certo in aiuto; una volta leggiamo La sua famiglia d’origine ha emigrato in Germania, un’altra è emigrata in Germania. Come regolarci?

Useremo l’ausiliare avere se non si indica la destinazione: Hanno emigrato in massa; l’ausiliare essere quando si specifica il luogo: Sono emigrati tutti in Germania.
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Messaggio  Maribella Lun Ott 10, 2011 8:15 pm

È proprio una farsa...

Riprendiamo il nostro viaggio alla ricerca di parole o frasi di uso corrente il cui significato recondito non è chiaro a tutti. Vi sarà capitato un’infinità di volte, gentili amici lettori, di sentire (o dire voi stessi) che tutto si è risolto in una farsa, vale a dire che tutto ciò si pensava dovesse essere trattato con la massima serietà – considerata l’enorme importanza – alla fine si è trasformato in un nulla di fatto.
Per comprendere l’origine e il significato di farsa occorre tornare indietro nel tempo e fermarsi al XIV secolo. In quel periodo storico non esistevano ancora i teatri e gli spettacoli si tenevano all’aperto – nelle piazze – e i soggetti erano tratti dalla storia sacra: i così detti misteri.
Con il trascorrere del tempo si cominciò a rappresentare, come intermezzo ai misteri, brevi scene di contenuto profano (non sacre, quindi) allo scopo di alleggerire l’austerità e la pesantezza dello spettacolo principale, la storia sacra, appunto.
E, sempre con il trascorrere del tempo, queste scenette assunsero, via via, un carattere scherzoso, allegro, fino a diventare addirittura volgari. Bene. In Francia, dove ebbe origine questo intermezzo, la scena inserita tra un atto e l’altro prese il nome di farce (ripieno, imbottitura) e questo dal latino farcire (riempire, imbottire, infarcire): scena introdotta nello spettacolo come ripieno.
Dal francese farce dunque, si è fatto l’italiano farsa. Se apriamo un qualsivoglia vocabolario, lo Zingarelli, per esempio, alla voce farsa possiamo leggere: «Genere teatrale risalente al XV secolo, ancor oggi vivo, di carattere comico e grossolano e, in senso figurato, serie di avvenimenti o imprese sciocche e ridicole”.
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Messaggio  Maribella Lun Ott 10, 2011 8:16 pm

Svignarsela...

Siamo sicuri di non essere lontani dal vero se affermiamo che molte persone, anche quelle così dette acculturate, sono convinte, erroneamente, del fatto che la voce “svignarsela”, vale a dire abbandonare un posto, darsela a gambe, sia di origine gergale romanesca.

Non è affatto, così, per l’appunto. Quest’espressione, o meglio il verbo proviene, con molta probabilità, proprio dalla... vigna, dal latino vinea. Nel secolo XVIII il verbo svignare era interpretato nel senso di fuggire furtivamente dalla vigna (s negativo e vigna) dove ci si era recati per rubare l’uva.

Con il trascorrere del tempo, attraverso un’ulteriore evoluzione semantica, il verbo ha acquisito l’accezione a tutti nota: abbandonare un luogo di nascosto, furtivamente, appunto.
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Messaggio  Maribella Lun Ott 10, 2011 8:20 pm

Islanda
Eheheh!!! Sweet, mi rubi il mestiere? Ahahah, scherzo, naturalmente, sono informazioni utili e interessanti ... magari quando ho un po' di tempo aggiungerò qualcosina anch'io ...

Anja
Leggo solo ora, miiiii che bello 'sto topic ed io sono una delle più "accanite" storpiatrici delle parole, eheheh!

Davvero, certe volte sono in difficoltà con la coniugazione dei verbi e se ci penso troppo.. ecco che sbaglio regolarmente. La grammatica non mi è mai piaciuta molto (in qualsiasi lingua) e per comodità (leggi poltronite) spesso vado a istinto, che schiappa, eheheheh! > Isly non leggereeeeee!

Sweet, qui si possono inserire anche le parole straniere italianizzate??? Me gusta molto questa pagina, sì sì!

ChiarallC'è una regola per il plurale delle parole che terminano in cia e gia?

se cia e gia sono preceduti da vocale, mantengono la i nel plurale (valigia valigie). Viceversa se preceduti da consonante, la perdono (provincia province)

Sweetisly!!!! nn sono all'altezza di rubarti il mestiere! lo dimostra che fò un semplice copia incolla!!!! ahahahhaah
inserisci anche tu qualcosa, c'è mica problema, eh? ci mancherebbe!!!!

anja...si si dai, metti anche le parole straniere italianizzate, mi sa che ne verranno fuori delle belle!!!!

grazie chiarall....informazione molto preziosa!


intanto continuo.....

È un canard

Quando sui giornali, nei tempi andati, si leggeva una notizia priva di fondamento, una fandonia, una frottola si diceva è un canard. Canard è un vocabolo francese e significa anitra.

La frase sembra abbia avuto origine da una storiella narrata dal conte di Châlons:

«Avevo sei anitre, ne uccisi tre, le tagliai a pezzi che lasciai nel recinto nel quale stavano le superstiti. Mezz'ora dopo, queste ultime le avevano mangiate fino all'ultimo ossicino. Ne uccisi un'altra, che subì la stessa sorte. Il giorno dopo, recatomi nel recinto non trovai che penne e una zampa. Le due ultime rimaste si erano mangiate fra loro».
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Messaggio  Maribella Lun Ott 10, 2011 8:21 pm

La bugia e la menzogna

La bugia e la menzogna non sono sinonimi? Come mai alcuni preferiscono la bugia alla menzogna? Gentili amici, sarebbe come domandarci per quale motivo alcuni preferiscono dire bello e altri, invece, grazioso. La differenza sostanziale – per quanto ne sappiamo – non esiste; esiste, invece, quella etimologica.
La bugia ha origini barbare, cioè straniere, mentre la menzogna è schiettamente un termine italiano in quanto i suoi natali sono latini. Probabilmente – a nostro modo di vedere – chi preferisce dire bugia lo fa per togliere quel senso di pesantezza che ha, invece, la menzogna. La bugia, infatti, ha un sapore bambinesco.
Questo, ripetiamo, è solo un nostro modestissimo parere avvalorato dal fatto che con il termine bugia si intende anche quella macchiolina bianca sulle unghie (si dice, infatti, ai bambini che si forma quando dicono le bugie) il cui vocabolo scientifico è leuconichia.
Ma veniamo alla differenza etimologica, cominciando dal nome barbaro. Se apriamo un qualunque vocabolario della lingua italiana alla voce bugia, leggiamo: «asserzione contraria alla verità». La sua origine, come detto, non è squisitamente italiana ma franco-germanica: bauzia che significa cattiveria, frode, malizia.
Da bugia è stato coniato il verbo bugiare (dire bugie) il cui uso, però, è desueto: molti vocabolari, infatti, lo hanno relegato nella soffitta della lingua. Sono vivi e vegeti, invece, gli altri derivati: bugiardaggine; bugiarderia (vizio di dire bugie) e bugiardo.
Più complessa l’origine di menzogna (con la z aspra) tratta dal latino tardo mentionia, derivato di mentiri (mentire). Ma andiamo con ordine. Dal verbo latino mentiri, tratto da mens, mentis (mente, cervello, intelletto) che in origine valeva fingere con la mente, attraverso vari passaggi semantici sono nate le forme mentionia e mentionéa, quest’ultima più vicino alla forma odierna italiana.
Chi dice una menzogna, quindi, sotto il profilo strettamente etimologico finge con la mente, fa, per tanto, una asserzione contraria alla verità (ed ecco scoperta la somiglianza con la bugia). Quanto alla desinenza ogna o sta per umnia, come nel latino calumnia, divenuto calugna e italianizzato calunnia o come finale aggettivale femminile, sempre latino, onéa, che si riscontra anche nelle voci dialettali piemontesi come, per esempio, in ambriac-ogna, ubriachezza e in tisic-ogna, tisichezza.
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Messaggio  Maribella Lun Ott 10, 2011 8:22 pm

La "nascita" di ex

Moltissime persone ritengono, erroneamente, che ex sia un prefisso e lo uniscono al sostantivo che segue con un trattino: ex-ministro. Niente di più inesatto, appunto. Ex è una preposizione impropria con valore avverbiale, non c’è alcun motivo logico-grammaticale di unirla al nome con un trattino (e sarebbe errato anche se fosse un prefisso perché questo si attacca direttamente al sostantivo: vicecapufficio, non vice-capufficio). Alcuni vocabolari, però... Ma tant’è.
Ex, dunque, è una preposizione trasportata pari pari dal latino all’italiano e alla lettera significa fuori di, già e si adopera in modo corretto solo davanti a titoli di natura temporanea per indicare che quel titolo (o quella funzione) è finito, non c’è più.
Si dirà, per tanto, in forma corretta, ex ministro; ex preside; ex dirigente; ex capufficio in quanto si tratta di cariche (o titoli) a termine, cessate le quali non si è più ministro, preside, capufficio. Un medico, un avvocato o un professore, invece, restano tali anche quando la loro funzione viene a cessare perché si tratta di titoli di natura permanente, acquisiti attraverso un regolare corso di studi universitari (lo stesso discorso per i titoli acquisti attraverso un diploma: un ragioniere resta tale sempre).
Ex, insomma, si adopera (e ripetiamo sempre staccato e senza trattino) correttamente solo davanti ad alcuni sostantivi per indicare la condizione di colui che in passato ha avuto una carica o ha espletato una funzione che non corrisponde più a quella attuale: ex atlteta; ex combattente; ex deputato; ex sindaco. Un professionista, invece, resta sempre tale. Sorridiamo, quindi, quando ci capita di leggere sulla stampa che un ex medico è stato arrestato: costui resta sempre un medico anche se esercita... all’Ucciardone.
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Messaggio  Maribella Lun Ott 10, 2011 8:23 pm

Il parricida

Molto spesso non perdiamo occasione per criticare, o meglio per condannare, i costumi linguistici degli operatori dell’informazione. Questa volta, invece, ci complimentiamo con un redattore di un giornale locale il quale ha adoperato la lingua in modo corretto.
In un articolo di cronaca nera – purtroppo questa non manca mai – il cronista ha definito parricida un uomo che, in preda ai fumi dell’alcol, ha ucciso il figlioletto di due anni perché infastidito dal pianto insistente del bimbo. Termine più appropriato l’articolista non avrebbe potuto adoperare.
Contrariamente a quanto si è portati a ritenere il parricida non è solo l’uccisore del padre. Anche il padre che uccide i figli è un parricida, sebbene l’etimologia del termine (dal latino pater, padre) sembrerebbe escluderlo.
Alcuni insigni Autori – e chi scrive concorda totalmente – fanno derivare il termine parricida sì dal latino, non da pater però, ma da parens, parentis (parenti). Il parricida sarebbe, dunque, l’uccisore dei parenti. E i figli non sono parenti?
Giacomo Devoto, illustre glottologo scomparso, ritiene, invece, che in origine parricida valesse uccisore di un par, cioè di un pari, di un appartenente a un medesimo gruppo sociale. Qualunque versione etimologica vogliate ritenere più credibile resta il fatto – inconfutabile, a nostro avviso – che parricida nell’accezione di uccisore del figlio o della figlia non è da ritenere errato, anzi...
Nel linguaggio forense, del resto, parricida è colui che uccide un ascendente come un discendente. Non vorremmo leggere, un giorno, fliglicida o – latinescamente – filicida che, etimologicamente, sarebbe amico della morte, o, meglio, dell’uccisore.
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Messaggio  Maribella Lun Ott 10, 2011 8:27 pm

Da dove nasce l'espressione "vedere i sorci verdi"?

Si tratta di una scherzosa espressione romana che significa sbalordire, ma anche far paura con azioni sorprendenti.


Seconda guerra mondiale.
I Sorci Verdi erano l'emblema della 205ª Squadriglia della Regia Aeronautica appartenente al 41º Gruppo BT (Bombardamento Terrestre) del 12º Stormo inquadrato nella IIIª Squadra Aerea.

Precisamente, tutti gli aerei di questa squadriglia portavano disegnati sulla fusoliera, giusto davanti al portellone, tre topi (in romanesco ed altri dialetti dell'Italia centromeridionale: sorci) verdi, ritti sugli arti posteriori.
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Visti i numerosi successi che la squadriglia raccolse, si pensa che il modo di dire: far vedere i sorci verdi, nel senso di umiliare un avversario in una competizione, sia nato proprio in questo periodo. Alcune fonti fanno risalire la nascita di questa espressione ad una specifica frase pronunciata da Benito Mussolini in occasione della trasvolata Italia Brasile della squadriglia: «Abbiamo fatto vedere i sorci verdi al mondo intero».

C'è anche chi sostiene esattamente il contrario: cioè che dal modo di dire sia nato il simbolo. Tuttavia i topolini verdi vennero disegnati sulle fusoliere già prima delle gare in cui la squadriglia si distinse.

Il detto «Te faccio vedé li sorci verdi!», pur usato un po' ovunque in Italia, è molto più comune in romanesco.
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Messaggio  Maribella Lun Ott 10, 2011 8:27 pm

Un eco? Correttissimo

Ancora una volta dobbiamo denunciare – e ci dispiace – l’ignoranza linguistica di alcuni insegnati e, per giunta, di scuola media superiore. Un docente di un liceo romano ha sottolineato con la fatidica matita blu l’articolo indeterminativo un privo di apostrofo che precedeva il sostantivo eco (un eco) apparso su un componimento svolto in classe da un allievo.
No, gentile amico, eco non è necessariamente femminile – come si ritiene comunemente – perché appartiene alla schiera dei così detti sostantivi sovrabbondanti. Eco, dunque, ha un solo plurale rigorosamente maschile (gli echi) e due singolari, uno maschile e uno femminile (un eco e un’eco).
Il plurale maschile si spiega da sé: tutti i sostantivi in -o (salvo mano) sono maschili e nel plurale mutano la desinenza -o in -i (l’albero, gli alberi; l’eco, gli echi).
Da dove proviene il femminile singolare? Ce lo dice, magistralmente, Ottorino Pianigiani.
Il femminile singolare, quindi, si spiega con la provenienza mitologica del vocabolo; quello maschile – e meno usato, per la verità – con la legge grammaticale che, come abbiamo visto, stabilisce che tutti i sostantivi che finiscono in -o sono di sesso maschile.
Ed eco, dal latino echu(m), non fa eccezione.
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Messaggio  Maribella Lun Ott 10, 2011 8:28 pm

Perché non quì e quà?

Su qui e su qua.... Tutti ricorderanno la canzoncina scolastica: «su qui e su qua l’accento non va, su lì e su là l’accento ci va». Pochi, crediamo, ricorderanno la ragione. Ci permettiamo di rinfrescare loro la memoria, anche perché ci capita sovente di leggere sulla stampa gli avverbi di luogo qui e qua con tanto di accento.
Una regola grammaticale stabilisce, dunque, che i monosillabi composti con una vocale e una consonante non vanno mai accentati, salvo nei casi in cui si può creare confusione con altri monosillabi ma di significato diverso come nel caso, appunto degli avverbi di luogo lì e là che, se non accentati, potrebbero confondersi con li e la, rispettivamente pronome e articolo-pronome.
Un’altra legge grammaticale stabilisce, invece, l’obbligatorietà dell’accento quando nel monosillabo sono presenti due vocali di cui la seconda tonica: più; giù; ciò; già ecc.
Dovremmo scrivere, quindi, quì e quà (con tanto di accento). A questo proposito occorre osservare, però, che la vocale u quando è preceduta dalla consonante q fa da serva a quest’ultima; in altre parole la u, in questo caso, non è più considerata una vocale ma parte integrante della consonante q. Si ha, per tanto, qui e qua senza accento perché – per la legge sopra citata – i monosillabi formati con una consonante e una vocale respingono l’accento grafico (scritto): me; te; no; lo; qui; qua.
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Messaggio  Maribella Lun Ott 10, 2011 8:29 pm

Strozzare e strangolare

I vocabolari attestano i due verbi l’uno sinonimo dell’altro. A voler sottilizzare non è proprio così, anche se hanno lo stesso significato fondamentale: morire per asfissia. Colui che strozza usa le mani; chi strangola, invece, serra il collo della vittima servendosi di un laccio o di qualche altro strumento.
A questo punto vediamo esattamente il significato di sinonimia. Con il termine sinonimia si intende – in linguistica – una corrispondenza semantica di due o più parole, vale a dire una somiglianza di significato di due o più vocaboli. Alcuni, in proposito, sono convinti del fatto che sinonimia equivale a identicità.
Così non è: non esistono in lingua italiana (ma neanche nelle lingue straniere) vocaboli che potremmo definire gemelli; c’è sempre una piccola sfumatura di significato. Per questo motivo alcuni linguisti, prudentemente, tendono a precisare che sono chiamati sinonimi i nomi che hanno il medesimo significato fondamentale; c’è sempre, infatti, qualcosa che sfugge e rende impossibile la perfetta equivalenza dei significati.
Una riprova? Prendiamo tre vocaboli apparentemente uguali, vale a dire tre sinonimi: stanza, sala e camera; la loro sinonimia si fonda sul fatto che tutti e tre hanno lo stesso significato fondamentale, ma a un attento esame presentano delle sfumature particolari che mettono in luce la loro diversità. Vediamo.
Stanza viene dal latino stans, stantis, participio presente di stare, propriamente star fermo in un luogo e in questo significato vale dimora, alloggio: il mio amico ha preso stanza (vale a dire: alloggio) presso alcuni parenti.
Sala proviene, invece, dal franco sal e originariamente stava a significare una abitazione di una sola stanza. Oggi ha acquisito il significato di stanza grande adibita a vari usi: sala d’aspetto, sala d’ingresso, sala da ballo, sala da pranzo, sala di lettura e così via.
Camera, infine, è propriamente la stanza da letto. Questo vocabolo ha origini antichissime che ci rimandano al sanscrito kamar (esser torto, esser curvo) che ha dato vita al greco kàmara e al latino camera (volta di una stanza; le volte non sono curve, kamar?) passato pari pari in lingua italiana. Gli architetti romani chiamavano camarus, ricurvo, infatti, il soffitto della stanza in cui erano soliti riposare. Per estensione, con il trascorrere del tempo, il termine è passato a indicare, per l’appunto, la stanza da letto.
Da questi esempi si possono ben notare, quindi, le diverse sfumature dei vari sinonimi. Per questa ragione, in linguistica si parla di sinonimia approssimativa e di sinonimia assoluta. Nella sinonimia approssimativa i vocaboli sinonimi sono intercambiabili solamente in determinati contesti. Provate a sostituire, infatti, sala da ballo con camera da ballo e vedrete che il conto non torna, per usare un’espressione dell’aritmetica. Si può benissimo dire, invece – il conto torna – sala da pranzo o camera da pranzo (anche se camera in questo caso non è un termine appropriato).
Nella sinonimia assoluta i vocaboli sinonimi sono, viceversa, intercambiabili in tutti i contesti. Bisogna dire, però, che i sinonimi assoluti sono veramente molto rari. Sono assoluti, per esempio, le preposizioni tra e fra anche se, a voler sottilizzare, c’è una differenza a livello stilistico: al fine di evitare la successione di sillabe uguali si preferisce dire, per esempio, tra fratelli invece che fra fratelli. Sono sinonimi assoluti – anche se, ripetiamo, c’è sempre una sottile differenza - invece e viceversa; ma e però; termosifone e calorifero e altri – insistiamo rari – che ora non ci vengono alla mente.
Per concludere queste modeste noterelle ribadiamo il concetto: nella maggior parte dei casi i sinonimi differiscono tra loro per particolarità o aspetti diversi o sono… sinonimi solo parzialmente.
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Messaggio  Maribella Lun Ott 10, 2011 8:30 pm

La cravatta

Due parole due, sulla cravatta, cioè su un complemento del vestiario maschile che sembrava scomparso con l’avvento dell’americanizzazione posbellica, ma tornato prepotentemente di moda anche tra i giovanissimi.
La cravatta, dunque, ha mutuato il nome dai Croati; in origine, infatti, si chiamava “croata”. Il termine, però, è giunto a noi attraverso il francese cravate in quanto i Francesi presero questo capo d’abbigliamento quando Luigi XIV, il Re Sole, istituì un reggimento di cavalleria leggera formata di Croati.
Questi soldati mercenari, noti anche in Italia – terra di conquista di tutti i popoli – avevano una divisa costituita di un dòlman rosso con alamari, un peloso colbacco e, caratteristica originale, una vistosissima striscia di lino bianco annodata attorno al collo.
Questa sciccheria piacque moltissimo al sovrano francese tanto che volle che tutte le sue truppe fossero dotate di croate, divenuto in seguito, per corruzione popolare, cravate, donde la nostra cravatta. Oggi le persone che credono di parlar bene dicono ancora corvatta, a noi sembra puro snobismo. Da molto tempo, ormai, il termine è stato relegato nella soffitta della lingua. I gusti, però, sono gusti…
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Messaggio  Maribella Lun Ott 10, 2011 8:30 pm

La nascita della giacca
La storia delle parole nasconde sempre delle sorprese, a volte impensabili. Chi avrebbe immaginato, infatti, che la giacca, vale a dire quell’indumento, maschile e femminile, che copre la parte superiore del corpo e divenuto simbolo di una forma di rispetto per l’ambiente in cui ci si trova – ancora oggi togliersi la giacca a tavola o per la strada, nonostante la permissività dei costumi, è considerato da taluni segno di scarsa educazione – ha origini tutt’altro che… raffinate.
Il nome, intanto, è il francese jaque derivato di Jacques, Giacomo, che con il trascorrere del tempo ha assunto il significato di contadino. Questi uomini di campagna, un tempo considerati rozzi, ci hanno dato, invece, una lezione di… civiltà. Ma per una migliore comprensione dell’evoluzione semantica della giacca, ci affidiamo a ciò che dicono in proposito Erminio Bellini e Andrea Di Stefano.
«Nelle sue Croniques il francese Jean Froissart narra la storia della prima jacqueries (sollevazione, rivolta dei contadini, NdR) scoppiata in Francia durante la guerra dei Cent’anni: una rivolta di contadini contro i proprietari di terre che li succhiavano fino all’osso e contro gli uomini d’arme che scorrazzavano per le campagne francesi dandosi al saccheggio. Questa fu la più clamorosa di una serie di rivolte sconsiderate e cruente degli eterni umiliati e offesi della terra, coloro che scherzosamente venivano chiamati in Francia Jacques Bonhomme, sempre piegati sotto il tallone dei potenti, pronti a esplodere nel momento più caotico e inconsulto, qualora trovassero un capo; rivolte tutte destinate a spegnersi nel sangue e negli orrori così come nel sangue erano prosperate.
Jacques (Giacomo) dunque era un nome comunissimo nelle campagne francesi, diffuso del resto ancora oggi in una terra che tiene alle proprie tradizioni e che non si è lasciata americanizzare come invece spesso è successo in Italia. Il nome Jacques fioriva fra i contadini, ma anche in genere tra i fanti, uomini della bassa forza, a servizio dei grandi signori feudali. Questi soldati (ma anche i contadini, NdR) solevano portare una sorta di maglia: il giaco il cui nome risale all’arabo shakk. In Francia però si attuò una fusione fra la parola originaria e il nome Jacques; la maglia di ferro portata dai fanti e indossata anche dalla gran parte dei partecipanti alla prima rivolta si disse jaque: da cui venne jaquette, la nostra giacca, la cui forma e il cui uso subirono successive trasformazioni nel tempo».
C’è da dire, per la cronaca, che in Italia il diminutivo giacchetta prevalse su giacca, che entrò in uso nell’Ottocento, tanto che – se non cadiamo in errore – il vocabolario del Tommaseo non registra la voce, al contrario del Boerio, nel 1829, che recita «giacheta, giacchetta. Voce ora fattasi comune all’Italia, dal francese jaquette».
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Messaggio  Maribella Lun Ott 10, 2011 8:32 pm

Il retrobottega? No, la retrobottega

Alcuni vocabolari (per non dire tutti) registrano il termine retrobottega fra le parole sovrabbondanti, parole, cioè, che possono appartenere ai due generi: il retrobottega e la retrobottega.

A costo di attirarci le ire di tanti linguisti improvvisati diciamo, subito, che il vocabolo in oggetto è solo femminile, con il regolare plurale retrobotteghe.

Come mai, si domanderà qualcuno, prevale la forma errata maschile: il retrobottega? La risposta è semplice: per effetto della sua abbreviazione – il retro (della bottega) – il cui uso è molto discutibile.

Retrobottega, insomma, è soltanto femminile per due motivi: 1) la maggior parte dei sostantivi in -a sono femminili; 2) tutte le parole composte con retro- assumono il medesimo genere della parola che segue il prefisso. Qualcuno, forse, dice il retroguardia? qualcuno, insistiamo, dice il retromarcia?
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Messaggio  Maribella Lun Ott 10, 2011 8:33 pm

Rispetto a...

È invalso l'uso, non ortodosso, di adoperare la locuzione rispetto a... come termine di paragone o di contrapposizione.

Chi ama il bel parlare e il bello scrivere non la usi, anche se c'è l'imprimatur di alcuni vocabolari.

Una città, per esempio, è più o meno bella di un'altra (non rispetto a un'altra); così come non si dirà che i sindacati rispetto agli industriali rivendicano più investimenti; si dirà, correttamente: i sindacati, nei confronti degli industriali, rivendicano più investimenti.
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Messaggio  Maribella Lun Ott 10, 2011 8:34 pm

I singenionimi

Non lasciatevi impaurire dal titolo: il termine che avete appena letto – di provenienza greca – rientra nel glossario dei vocaboli e indica un nome di parentela, come padre, madre, consuocero, ecc. Uno zio, quindi, dal punto di vista prettamente linguistico è un singenionimo, vale a dire un nome che esprime un rapporto di parentela.
Molti testi sacri (vocabolari - ad eccezione del Battaglia e del GRADIT - e grammatiche) ignorano questo termine che noi, invece, vogliamo mettere bene in evidenza perché siamo fermamente convinti del fatto che chi ama la lingua deve conoscere il gergo e tutte le norme che la regolano, e tra queste ve n’è una che stabilisce il corretto uso dell’articolo con i… singenionimi.
Molto spesso ci capita di leggere, infatti, anche in scritti di coloro che secondo l’opinione corrente fanno la lingua, frasi tremendamente errate perché non è stato rispettato l’uso corretto dell’articolo davanti ai nomi di parentela; vediamo, per tanto, di fare un po’ di chiarezza.
Con padre, madre, figlio, figlia l’articolo si omette; va sempre espresso, invece, con le varianti affettive, vale a dire con babbo, papà, figliolo, figliola. Vediamo, in proposito, un bellissimo esempio del Verga: «Ringraziava Dio e i santi che avevano messo il suo figliuolo in mezzo a tutte quelle galanterie».
Nell’uso familiare sono ben radicati i tipi mia mamma e mio papà – anche fuori della Toscana, dove questi linguismi la fanno da padroni – ma che noi sconsigliamo decisamente perché cozzano, per l’appunto, con il buon uso della lingua di Dante.
Con altri singenionimi (sorella, fratello, nipote, ecc.) l’uso toscano predilige l’articolo ma non per questo sono da considerare fuori legge le forme senza, ben rappresentate, del resto, anche in ottimi scrittori della terra del Divino. Personalmente preferiamo le forme non toscaneggianti (quelle senza articolo): tuo cugino, quindi, a nostro modestissimo avviso, è meglio che non il tuo cugino. Non siete d’accordo anche voi?
E in questo caso – una tantum – ci facciamo forti della legge dell’orecchio. Insomma, amici, la grammatica, a questo proposito, ci lascia agire secondo coscienza linguistica, vale a dire ci lascia liberi di adoperare o no l’articolo senza incorrere – nell’un caso o nell’altro – in madornali strafalcioni.
Ci obbliga, invece, all’uso dell’articolo davanti ai singenionimi – sempre che lo scrivente o il parlante – voglia rispettare le leggi linguistiche – nei seguenti casi:
a) con gli alterati (la mia sorellina);
b) con alcuni singenionimi particolari, tipo figliastro, patrigno e matrigna (il vostro patrigno non meritava una simile umiliazione);
c) con i sostantivi che potremmo definire parasingenionimi, ossia con i nomi che esprimono un rapporto sentimentale che non rientra, o non rientra ancora, nei vincoli di parentela: fidanzato, amante, moroso, bella, bello, ragazzo e simili (la mia bella, il mio ragazzo, la mia morosa, la sua fidanzata);
d) quando, in costrutti con valore enfatico, l’aggettivo possessivo è posposto al singenionimo (il nonno tuo, la suocera sua, il nipote vostro).
Possiamo scegliere di omettere l’articolo – la grammatica ci dà ampia facoltà – quando un singenionimo è accompagnato dal nome o dal cognome: mio cognato Arturo, sua nonna Evelina, vostra nuora Palmira. Non sono errate, come dicevamo, le forme con l’articolo nell’uso, però, è più frequente l’omissione e noi propendiamo per quest’ultima.
C’è da dire, per concludere, che senza l’aggettivo possessivo l’uso formale richiede sempre l’articolo con i nomi di parentela, anche se babbo, mamma e papà – comunemente – si adoperano senza articolo. In quest’ultimo caso, però, la soppressione dell’articolo è in regola con le leggi della grammatica solo quando il singenionimo si riferisce ai genitori dell’interlocutore o del parlante.
Non si potrebbe dire, infatti – ed è evidente la stonatura – mamma di Maria non è partita. La sola forma corretta – va da sé – è la mamma di Maria non è partita. E noi speriamo che non parta – lancia in resta – qualche pseudolinguista pronto a contraddirci… Se così fosse, però, la cosa ci lascerebbe nella più squallida indifferenza.
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Messaggio  Maribella Lun Ott 10, 2011 8:34 pm

La ringhiera

È interessante sapere perché il parapetto di ferro delle scale, dei balconi, delle finestre, delle terrazze, ecc. si chiama ringhiera.

Perché originariamente la ringhiera era il punto del palco su cui ci si appoggiava per... arringare. Il termine più antico era, infatti, aringhiera e il palco si chiamava arengo.

La parola in uso oggi, dunque, è l’aferesi (caduta della prima lettera) di (a)ringhiera.
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Messaggio  Maribella Lun Ott 10, 2011 8:35 pm

Le due alternative

Non hai altre alternative. Frasi simili le leggiamo (e ascoltiamo) quotidianamente sulla stampa ma non sono esatte, anzi… corrette.
I grammatici raccomandano il fatto che per alternativa deve intendersi una scelta, o meglio una possibilità di scelta fra due termini, non come una delle soluzioni che la scelta stessa concede. La frase, per esempio, l’alternativa è combattere o morire è correttissima perché abbiamo, per l’appunto, la possibilità di scegliere fra due soluzioni, possiamo cioè scegliere fra il combattere o il morire.
Nella frase, invece, non ha altra alternativa che morire, il discorso non regge perché non c’è possibilità di scelta. Nei casi dubbi alcuni autorevoli grammatici consigliano di sostituire alternativa con dilemma (una specie di prova del nove, insomma): se il discorso fila – ha, cioè, un senso – l’uso di alternativa è corretto.
Nel primo esempio… per esempio, l’alternativa è combattere o morire si può sostituire benissimo alternativa con dilemma e dire il dilemma è combattere o morire; il discorso fila, quindi l’uso di alternativa è correttissimo. Nel secondo esempio, invece, non si può dire, perché non fila, non ha altro dilemma che morire; l’uso di alternativa è, per tanto, errato.
L’alternativa, inoltre, è sempre una (e soltanto una): questo o quello. Non si può dire, quindi, c’è un’altra alternativa o ci sono due (o più alternative). La stampa è incurante di queste norme e fa un uso improprio, per non dire scorretto, di alternativa. Ma anche alcuni vocabolari non sono da meno. Lo Zingarelli registra: non avere altra alternativa; gli resta una sola alternativa. Proviamo a sostituire alternativa con dilemma e vediamo che… i conti non tornano; l’uso di alternativa è errato. Il vocabolario Sandron riporta: la sola alternativa che ci resta è la resa; avverte, però, che l’uso è improprio.
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Messaggio  Maribella Lun Ott 10, 2011 8:36 pm

C'è marasma e... marasma

Due parole due sull’uso corretto di un sostantivo che molti – gente di cultura e no – adoperano impropriamente: marasma.

Questo sostantivo di provenienza classica – il greco – alla lettera significa grave indebolimento del corpo dovuto a malattia o vecchiaia e, in senso figurato, decadimento morale.

È, infatti, il greco marasmòs, derivato di maràinein, consumare. Non è corretto adoperarlo, quindi, nel senso di confusione, babilonia, caos.

Certi vocabolari lo attestano anche con questi significati ma chi ama il bel parlare e il bello scrivere li... snobbi. Come si fa, infatti, a consumare una confusione?
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Messaggio  Maribella Lun Ott 10, 2011 8:37 pm

Fare la cura di Mitridate

Pochi, probabilmente, conoscono (o hanno sentito) quest'espressione che significa conoscere i vizi per rendersene immuni.

L'origine del modo di dire si fa risalire, sembra, all'usanza di Mitridate, il re del Ponto, nemico giurato dei Romani, il quale per immunizzarsi e sfuggire al pericolo di essere avvelenato fece la cura preventiva dei veleni.

Questa cura, però, gli si ritorse contro: quando fu sconfitto da Scipione l'Asiatico, tentò di avvelenarsi per non cadere nelle sue mani, ma non vi riuscì
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Messaggio  Maribella Lun Ott 10, 2011 8:37 pm

Fare la luna di miele...

L'origine del nome non è chiara. Sicuramente con il termine luna si fa riferimento al primo mese di matrimonio, ma non è chiaro il motivo per cui tale periodo debba essere di miele.
Alcuni testi (es. The Oxford Dictionary) considerano il miele un riferimento alla dolcezza del primo periodo successivo al matrimonio, sottolineando il fatto che l'espressione lascia intendere che solo la prima luna sarà di miele, ovvero che la felicità iniziale è comunque destinata a diminuire presto.
Una origine più storica fa risalire l'espressione addirittura ai tempi di Babilonia: in tale periodo era uso regalare alle coppie di sposi una quantità di idromele (un liquore al miele) sufficiente per un mese. Si pensava che tale bevanda garantisse fertilità.
Nonostante l'origine babilonese non sia sicura, l'abitudine di regalare idromele o simili bevande agli sposini era comune nell'antica Roma e nel medioevo.
Una origine tanto antica dell'espressione luna di miele è giustificata perché è presente in molte altre lingue, come francese (Lune de miel), spagnolo (Luna de miel) ed inglese (honeymoon). In gallese (mis mêl) ed arabo (shahr el 'assal) si usano espressioni che tradotte letteralmente significano mese di miele, che ovviamente ha lo stesso significato.
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Messaggio  Maribella Lun Ott 10, 2011 8:38 pm

Le sopracciglie

Un giornalino locale titolava «Le sopracciglie finte dell'attrice». È un errore madornale, si dice le sopracciglia.

Questo termine è così detto sovrabbondante in quanto ha due plurali, uno maschile e uno femminile: i sopraccigli e le sopracciglia.

Si userà il maschile se considerati uno per uno; il femminile se considerate nell'insieme.
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Messaggio  Maribella Lun Ott 10, 2011 8:39 pm

Fare il portoghese

Chi non conosce questo modo di dire che significa «godere di un servizio senza pagarlo», per esempio intrufolandosi tra il pubblico in una manifestazione teatrale o sportiva o salire sui mezzi pubblici di trasporto senza pagare il biglietto?

La locuzione, nonostante le apparenze, non fa riferimento alcuno a persone provenienti dal Portogallo, ma a un avvenimento storico avvenuto a Roma nel XVIII secolo: l'ambasciatore del Portogallo presso lo Stato Pontificio invitò i connazionali residenti a Roma ad assistere gratuitamente a uno spettacolo teatrale presso il Teatro Argentina: non c’era bisogno di invito o di biglietto; era sufficiente che dichiarassero al botteghino di essere portoghesi.

Di questo fatto ne approfittarono... molti romani de Roma. Di qui, per l’appunto, è nata l’espressione fare il portoghese, cioè non pagare il biglietto.
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Messaggio  Maribella Lun Ott 10, 2011 8:39 pm

"Essere una mezza calzetta"

Il modo di dire – forse tutti lo sanno - si tira in ballo riferendolo alle persone che si reputano importanti e competenti in un determinato campo, ma all’atto pratico mettono in evidenza tutta la loro... ignoranza.

L’origine dell’espressione – e questo, forse, non tutti lo sanno – si fa risalire agli inizi del Novecento quando vennero inventate le calze di seta per donna. Il loro costo, però, era talmente elevato che solo le signore dei ceti benestanti potevano permettersele.

Vennero, così, inventate le cosiddette mezze calzette: calze più economiche che di seta avevano solamente la parte inferiore, il resto era di cotone che però rimaneva “invisibile” vista la lunghezza delle gonne che andavano di moda all’epoca.
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