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CONOSCIAMO LA NOSTRA LINGUA

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Messaggio  Maribella Lun Ott 10, 2011 8:40 pm

Calma e gesso!

Calma e gesso! non è propriamente un modo di dire ma un'esortazione con la quale si invita una persona a non prendere delle decisioni affrettate delle quali, in futuro, potrebbe pentirsi; ma, al contrario, valutare con la massima attenzione una determinata situazione per affrontarla nel modo migliore e goderne, eventualmente, i benefici.

Gli appassionati del gioco del biliardo dovrebbero conoscerla bene. Prima di un tiro particolarmente difficile, i giocatori esperti valutano con la massima calma la posizione delle biglie e strofinano con il gesso la punta della stecca al fine di renderla uniforme ed essere sicuri, quindi, di riuscire ad effettuare al meglio il tiro studiato attentamente.
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Messaggio  Maribella Lun Ott 10, 2011 8:44 pm

L’uso corretto del verbo andare

Il verbo andare nella sua accezione primaria vuol dire — genericamente — spostarsi, muoversi da un luogo a un altro: vado a Parigi (cioè: mi sposto dal luogo abituale per andare in un altro). Può anche, di volta in volta, significare dirigersi, recarsi e così via.
Alla luce di quanto sopra scritto è bene, dunque, che coloro che amano il bel parlare e il bello scrivere non abusino di questo verbo plurivalente ma adoperino — secondo i casi — un verbo più appropriato, tranne, ovviamente, in alcune locuzioni particolari, proprie del nostro idioma, in cui andare la fa da padrone per dare una maggiore efficacia espressiva al discorso. Vediamole assieme.
Andare a fondo, cioè esaminare attentamente una questione; andare a zonzo, gironzolare qua e là, senza una meta; andare per le lunghe, indugiare troppo, procedere con molta lentezza; andare a genio, piacere, soddisfare; andare per la maggiore, essere fra i primi, essere di moda; andare in fumo, non concludere nulla; andare a ruba, essere venduto in pochissimo tempo; andare a rotoli, essere rovinato; andare a nozze, sposarsi, ma anche piacere; andare con uno, frequentarlo assiduamente; andare a Canossa, pentirsi; andare col vento in poppa, procedere favorevolmente, non incontrare ostacoli di sorta; andare a vuoto, riuscire vano; andare per terra, cadere; andare in persona (desueto), recarsi personalmente; andare d’amore e d’accordo, essere in perfetta armonia con qualcuno.
Potremmo continuare, ma non vogliamo abusare della vostra pazienza. Non possiamo, però, chiudere queste noterelle senza ricordare che il verbo andare è bene adoperato per indicare un particolare modo di abbigliarsi, di atteggiarsi: andare pulito, vestito bene; andare in maniche di camicia.
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Messaggio  Maribella Lun Ott 10, 2011 8:48 pm


by anja

Beneeeeeeee!
Tu hai messo il verbo andare, io inserisco il verbo avere.


Facciamo la distinzione tra ho (verbo avere) e o (congiunzione).

CONOSCIAMO LA NOSTRA LINGUA - Pagina 2 20106212


Verbo avere:

Io ho una scrivania.
Tu hai un pallone da calcio.
Egli ha molti libri.
Noi abbiamo una casa grande.
Voi avete un giardino fiorito.
Essi hanno tanti cani.



La congiunzione o (oppure) tra due parole:

Bianco o nero
Bello o brutto.
Triste o contento.

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Messaggio  Maribella Lun Ott 10, 2011 8:49 pm

La strada e la... via

La mattina, quando salite sulla vostra auto o sull’autobus, per recarvi al lavoro, quale via o strada percorrete? Ecco, gentili amici, due parole di significato comune e di identico... significato. Vediamo, assieme, la strada che la... strada e la via hanno percorso.
Ricorderete senza dubbio, per averli studiati a scuola, i nomi di alcune vie consolari — così chiamate perché prendevano (prendono) il nome del console romano che ne aveva iniziato la costruzione — che partivano da Roma e si aprivano a raggiera nelle contrade dello stivale: la via Aurelia, che da Roma portava a Ventimiglia; la via Appia, dalla capitale a Capua e poi a Brindisi, la più antica via consolare di cui ancora oggi rimangono visibili numerosi tratti; la via Cassia, fino a Pistoia; la via Flaminia dall’Urbe a Rimini dove si allacciava alla via Emilia fino a Milano. Bene.
Ne consegue che via è termine latino rimasto intatto nella grafia, nella pronuncia e nel significato a tutti noto. E la strada? Questa parola esisteva anche in latino, però nella forma strata, e non era un sostantivo sibbene un participio passato (quindi un aggettivo) che si univa al nome via (via strata) per indicare una via non in terra battuta ma lastricata con ciottoli. Strata, infatti, è il participio passato femminile del verbo sternere che significa, per l’appunto, fare uno strato, lastricare. La via strata, quindi, serviva per indicare solo le vie urbane, cioè le vie della città. Le altre erano semplicemente vie perché polverose e fangose non essendo, appunto, lastricate.
Con il trascorrere del tempo — come accade sempre in fatto di lingua — il sostantivo via cadde e rimase solo il participio passato strata, divenuto in italiano — attraverso un processo semantico — strada. Oggi i due termini, strada e via, sono l’uno sinonimo dell’altro. Se volessimo pedanteggiare, però, dovremmo chiamare strada le vie dei centri abitati e via quelle di campagna.
Il viottolo, in proposito, non vi dice nulla? Ma le sorprese non sono finite: un derivato del verbo latino sternere lo troviamo, addirittura, nella lingua inglese. Street, nella lingua di Albione, che cosa significa? Come tutti sappiamo, strada e anche in inglese si adopera solamente per indicare strade urbane.
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Messaggio  Maribella Lun Ott 10, 2011 8:49 pm

L'imposta...

Proseguiamo il nostro viaggio alla ricerca di parole omofone e omografe ma di significato diverso: le imposte. Prima, però, chiudiamo le... imposte perché non vogliamo che ci sentano i sostenitori dell’inutilità dello studio del latino.
È risaputo che i traditori del padre della nostra lingua non sono in grado di cogliere questo messaggio, tanto vale che non ci sentano. Chiudiamo, dunque, le imposte perché parleremo proprio di queste a dimostrazione della nostra tesi: il latino non si può gettare alle ortiche!
L’imposta, dunque, usiamo il singolare, è — come recitano i vocabolari — «il battente di legno che chiude l’apertura delle finestre impedendo alla luce di passare attraverso i vetri o di vedere chi sta fuori» e il suo nome deriva dal significato proprio del verbo latino imponere composto di in (sopra) e ponere (porre): porre sopra, quindi... imporre.
Per essere ancora più precisi è il participio passato impositum (imposto): il battente, infatti, è posto sopra la finestra. Per quanto attiene, invece, all’altro significato di imposta, vale a dire la «tassa sulle rendite private per formare una rendita a favore dello Stato o degli Enti locali destinata alle spese pubbliche», il termine non è altro che l’uso figurato dello stesso verbo latino imponere; l’imposta (tassa) è posta sopra i beni o le persone. C’è imposta e... imposta, quindi.
L’imposizione, cioè un comando, un ordine non è — in senso traslato — un’idea posta sopra quella altrui? Potremmo continuare per un pezzo ma non vogliamo tediarvi; vogliamo solo dimostrarvi, con i fatti, che non si può sostenere che il latino è una lingua morta il cui studio, quindi, è solo una perdita di tempo. No, non è affatto così, il latino vive attraverso l’italiano e l’italiano non si può capire se si prescinde dal latino.
Sarebbe azzardato sostenere che il latino è il fondamento di tutte le lingue? Crediamo di no. Non sarebbe il caso, per tanto, che si rivedessero i programmi della scuola media inferiore? Ma ci rendiamo conto che stiamo bestemmiando... Già è un miracolo se i programmi prevedono ancora la lettura del Manzoni (nella scuola media superiore). Che cosa pretendiamo? Accontentiamoci.
E non meravigliamoci più di tanto se i giovani di oggi a malapena distinguono la ha verbo dalla a preposizione; quando per legge faranno scomparire l’acca dal verbo avere, essendo un residuo del latino, la frittata sarà completa.
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Messaggio  Maribella Lun Ott 10, 2011 8:50 pm

L’idioma e la Bibbia

Forse a molti sfugge l’importanza che ha avuto il cristianesimo nello sviluppo del vocabolario di tutti gli idiomi. Molti, infatti, non sanno che alcune parole, modi di dire, proverbi, locuzioni che sono sulla bocca di tutti, molto spesso sono tratti dalla liturgia o dai libri sacri.
Vediamo di piluccare qua e là, senza un ordine cronologico in quanto la materia è talmente vasta che non si presta a un lavoro del genere: vogliamo solo darvi la prova provata di quanto affermato in queste modeste noterelle. Vediamo, dunque.
Quando diciamo, per esempio, che una persona è in cimbali o in cimberli perché ha alzato un po’ troppo il gomito, citiamo — inconsciamente — un passo dell’ultimo dei Salmi, quello che tesse le lodi a Dio cantate in letizia al suono dei cembali.
E che dire del lavabo, termine comunissimo giuntoci dal francese? Nessuno, di primo acchito, penserebbe di metterlo in relazione con la Bibbia o con il culto. Eppure è proprio così: è la prima parola del salmo «Lavabo inter innocentes» che il sacerdote recita — durante la celebrazione della messa — all’atto del lavaggio delle dita.
Insomma sono entrati nel nostro idioma non soltanto termini ebraici come amen, sabato, alleluia o pasqua — sempre attraverso la Bibbia e la liturgia — ma anche alcune costruzioni grammaticali. Quando diciamo il problema dei problemi, il libro dei libri non ricalchiamo — direttamente o indirettamente — che costruzioni bibliche come il servo dei servi, il secolo dei secoli, il cantico dei cantici.
Ne dà una magistrale prova Ugo Foscolo nel suo epigramma contro Vincenzo Monti: «Questi è Vincenzo Monti cavaliere / gran traduttor de’ traduttor d’Omero». Analizzando attentamente l’espressione risulta evidente il fatto che il Foscolo irride il Monti per aver tradotto Omero non direttamente (dal greco, ndr), bensì servendosi di traduzioni latine.
Ma torniamo alle locuzioni e ai vocaboli di provenienza biblica. Sono così numerosi che ne citiamo soltanto una minima parte, estrapolati da un solo libro dell’Antico Testamento, la Genesi, e da uno solo dei Vangeli, quello di Matteo. L’espressione carne della mia carne, secondo le parole pronunciate da Adamo e l’altra essere della costola di Adamo, cioè di antica nobiltà, di antica stirpe, da dove provengono se non dal Libro della creazione della donna? Così pure dal libro della Genesi abbiamo le locuzioni serpente tentatore, nascondere con una foglia di fico, guadagnare il pane con il sudore della fronte.
Ancora. La voce del sangue e gridare vendetta non sono espressioni – ormai comunissime – che provengono dal quarto capitolo della Genesi? Semitismo, antisemitismo, lingue camitiche, questi termini non vi dicono nulla? Dal discorso della montagna ci sono pervenute le espressioni vedere il bruscolo nell’occhio altrui e non la trave nel proprio (di significato evidente) e gettare le perle ai porci.
Potremmo continuare ancora, ma non vogliamo tediarvi oltre misura. Concludiamo con l’etimologia di Bibbia (il Libro per eccellenza) che viene dal latino medievale biblia, tratto dal greco biblìa, libri. La Bibbia, i libri, ci ha richiamato alla mente una massima di Milton (Aeropagitica): «Uccidere un buon libro è quasi lo stesso che uccidere un uomo; chi uccide un uomo uccide una creatura ragionevole, immagine di Dio; ma chi uccide un buon libro uccide la ragione stessa, uccide l’immagine di Dio, per così dire, nell’occhio».
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Messaggio  Maribella Lun Ott 10, 2011 8:51 pm

La congiunzione che

Tutti i grammatici sono concordi — una volta tanto — nel definire la congiunzione che regina delle congiunzioni subordinanti; la ritroviamo, infatti, a introdurre quasi sempre ogni specie di proposizione subordinata. Il titolo di regina le spetta, dunque, per diritto linguistico.
Oltre a essere una congiunzione dichiarativa — che è la sua principale funzione — la regina è anche congiunzione causale: «si arrabbiò moltissimo che io fossi mancato all’appuntamento»; e finale: «stava sempre attento che i figli si comportassero bene»; e consecutiva: «il freddo è tale che non si resiste»; e comparativa: «è più intelligente che non sembri»; e temporale: «lo incontrai che era inverno inoltrato».
Altre volte si può trovare davanti ad altre specie di proposizioni subordinate in compagnia di altre parole; talvolta anche fusa con queste ultime, tanto che è appena riconoscibile: allorché (allor che), fuorché (fuor che), sennonché (se non che), poiché (poi che), ancorché (ancor che) e via dicendo. A questo proposito non siamo affatto d’accordo con alcuni scrittori moderni che scopiazzano i loro colleghi francesi che riducono al minimo l’uso delle congiunzioni: preferiscono uno stile letterario che lasci indipendenti il più possibile le proposizioni l’una dall’altra; non amano, insomma, la subordinazione.
La moderna lingua d’Oltralpe preferisce dire, per esempio, «pioveva moltissimo. Da tempo non si vedeva una pioggia così abbondante» in luogo di «vien giù una pioggia quale non si vedeva da tempo». Anche in casa nostra — come dicevamo — c’è la tendenza a sopprimere più che si può le congiunzioni, a imitazione dei Francesi, secondo la famosissima legge che stabilisce l’erba del vicino essere più verde.
Certo, non si può negare il fatto — evidentissimo — che le congiunzioni appesantiscono il periodo; i periodi con pochissime congiunzioni risultano indubbiamente molto più snelli. Ma è altrettanto certo il fatto che è proprio del genio della nostra lingua — idioma gentil sonante e puro, per dirla con l’Alfieri — concatenare in modo logico le varie proposizioni del periodo e metterne bene in evidenza i rapporti finali, temporali, causali e gli altri che esistono tra questi.
E questo compito è proprio delle congiunzioni. Per questo motivo condanniamo — senza appello — i moderni scrittori che privilegiano lo stile gallico al posto di quello italico. Il nostro stile è il vero erede di quello latino, quant’altro mai complesso, organico, compatto, concatenato. Ma non basta. A infilzare una lunga teoria di proposizioni indipendenti e necessariamente brevi — a imitazione dei moderni scrittori francesi — si finisce con il ridurre il discorso — e, quindi, il nostro scritto — a una cadenza sincopata, asmatica, singhiozzata, che a lungo non può che generare pena e monotonia.
Quando ci capita di leggere una paginetta di quelle minifrasi, ciascuna delle quali va per proprio conto, ci sembra di sentire un discorso dinoccolato, disarticolato, senza scheletro. Il discorso, insomma, di un selvaggio.
Per concludere queste noterelle riteniamo, dunque, che sia opportuno rimanere fedeli alla nostra lunga tradizione linguistica — consacrata da moltissimi mostri letterati — perché quando si sa maneggiare bene la penna e si fa un uso accorto delle congiunzioni i nostri scritti avranno un bell’effetto e un maggior vigore d’espressione. Attenzione però, ripetiamo, al loro uso corretto.
Nella lingua parlata, per esempio, non si fa alcuna distinzione tra ovvero e oppure e si adopera l’una o l’altra congiunzione con valor disgiuntivo. Ciò è un grossolano errore: solo oppure è una congiunzione disgiuntiva con il significato di o; mentre ovvero è congiunzione di equivalenza (o esplicativa) e sta per cioè, ossia.
Perché alcuni vocabolari non specificano la differenza che intercorre tra le due congiunzioni? o, peggio, le attestano come sinonimi?
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Messaggio  Maribella Lun Ott 10, 2011 8:51 pm

Iberismi...

Il nostro Paese — come si sa — è stato terra di conquista di molti popoli che hanno lasciato le loro impronte nel nostro idioma. Non possiamo sottacere, quindi, il fatto che gli Spagnoli, essendo stati i padroni di alcune nostre regioni, abbiano lasciato un segno indelebile della loro cultura e della loro lingua, ci abbiano dato, insomma i così detti iberismi. Vediamo, innanzi tutto, che cosa si intende con il termine iberismo.
In linguistica si chiama così ogni parola o locuzione spagnola (o portoghese) entrata nell’uso comune della nostra lingua, solitamente con modificazioni della grafia e della pronuncia adeguandosi — in tal modo — ai sistemi grafici e fonetici del nostro idioma.
Gli iberismi presenti nella nostra lingua si possono dividere in due gruppi: a) termini provenienti dallo spagnolo, propriamente detti ispanismi; b) vocaboli provenienti dal portoghese, propriamente chiamati lusismi (dall’antico nome del Portogallo: Lusitania). Questi ultimi, per la verità, non sono molti, al contrario degli ispanismi che entrano nell’italiano nel periodo che va dalla seconda metà del secolo XVI alla fine del XVII secolo, in coincidenza, appunto, del dominio spagnolo in Italia.
Nei secoli precedenti sono poche le voci spagnole entrate nella lingua, ricordiamo maiolica; infante (nell’accezione di principe reale); gala (entrato, però, attraverso il francese) e marrano. La maggior parte degli iberismi, o meglio ispanismi, si ha — come abbiamo visto — con la dominazione spagnola. In questo periodo entrano nel nostro idioma termini militari come alfiere e recluta (voce derivata dal francese recrue, participio passato femminile del verbo “recroitre, ricrescere; come osserva il Tommaseo «accrescimento delle milizie per giunta di nuovi militi».
C’è anche da dire che i puristi vorrebbero si dicesse reclùta, con l’accento sulla u, con la pronuncia piana, dunque, come la gran parte delle nostre parole; voci della moda: alamaro, guardinfante; termini marinareschi: rotta, doppiare, nostromo, flotta, flottiglia, risacca; termini vari: buscare, appartamento, arrabattarsi, floscio, accudire; voci della danza come sarabanda e ciaccona; termini di comportamento sociale come baciamano, etichetta, creanza, disinvoltura.
Dopo un periodo di stasi, in cui l’influenza spagnola sulla nostra lingua è pressoché nulla, si ha un risveglio nell’Ottocento in cui entrano nel nostro linguaggio vocaboli come bolero, baraonda, caramella, camarilla, compleanno, corrida, disguido, guerrigliero, farfugliare.
Pochi, invece, come abbiamo accennato all’inizio, i lusismi accolti nel nostro vocabolario in quanto i rapporti tra il nostro Paese e il Portogallo sono stati — nel corso dei secoli — quasi nulli e per lo più indiretti; ciò spiega la pochezza del linguaggio italo-lusitano.
Citiamo, dunque, i lusismi che tutti adoperiamo inconsciamente: marmellata, casta, tolda, autodafé. Il portoghese, tuttavia, come lo spagnolo, ha il merito di avere introdotto nella nostra lingua termini derivati dalle diverse lingue originarie dei Paesi extraeuropei che furono a lungo colonie della penisola iberica: banana, bonzo, samba, pagoda, cavia, macao, mandarino.
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Messaggio  Maribella Lun Ott 10, 2011 8:52 pm

Scrittori di... Vaglia

Musa, tu che sei grande e potente, dall’alto della tua magniloquenza, non ci indurre in marronate ma liberaci dalle parole errate. E così sia. Questa la preghiera dei genitori che hanno a cuore l’istruzione linguistica dei propri figli. Come facciamo noi, ogni mattina, quando sfogliamo le pagine «culturali» dei quotidiani.
Ci sembra assurdo dover constatare che i così detti scrittori di vaglia (non di vaglio, come erroneamente si sente dire e si legge spesso) non tengano nella dovuta considerazione (o non le conoscono?) le regole grammaticali, inducendo in errore i giovani studenti che debbono essere plasmati dal punto di vista linguistico-grammaticale (ma non solo).
Tremiamo al pensiero che i nostri figli — seguendo l’esempio «illustre» degli autori che «fanno la lingua» — possano scrivere cassaforti e acquaforti in luogo di casseforti e acqueforti — le sole forme corrette — rimediando un bel 4 nei loro componimenti se questi sono al vaglio di insegnanti con la i maiuscola.
Stentiamo a credere che questi luminari della lingua non sappiano che i predetti sostantivi appartengono alla schiera dei nomi composti e in quanto tali formano il plurale secondo una regola ben precisa. Vediamola.
I nomi composti di un sostantivo e di un aggettivo formano il plurale mutando le desinenze di entrambi i componenti: cassaforte (cassa, sostantivo; forte, aggettivo), casseforti; acquaforte, acqueforti. L’unico vocabolario — tra i numerosissimi consultati — che ammette la forma plurale acquaforti è il permissivo Zingarelli (nell’edizione in nostro possesso, per lo meno; non sappiamo se le altre edizioni siano state emendate).
E che dire — sempre degli scrittori di vaglia — che costruiscono il participio presente inerente con il complemento oggetto e non con il complemento di termine come vuole la legge linguistica dei nostri padri latini?
Senza entrare nel merito prettamente linguistico e per non essere tacciati di presunzione sentiamo ciò che dice, in proposito, il linguista Aldo Gabrielli.


«Questo inerente è il participio presente di un verbo inerire ormai pressoché scomparso dal comune linguaggio, e perciò generalmente non registrato dai minori dizionari; esso affiora solo tratto tratto in certi linguaggi particolari, come quello giuridico e filosofico, per esempio. Oggi solo inerente è nell’uso, e non sempre si costruisce a dovere; tanto che frasi come atti inerenti la causa; indagini inerenti il delitto si incontrano sempre più di frequente negli atti giudiziari soprattutto. Sono frasi sbagliate perché il verbo inerire, etimologicamente affine ad aderire, si costruisce, come questo, col complemento di termine e non con il complemento oggetto: atti inerenti alla causa; indagini inerenti al delitto».


Per non parlare di coloro, e chiudiamo queste noterelle, che scrivono complementarietà, elementarietà e simili, ignorando che quella e inserita dopo la i è un abuso linguistico. I sostantivi derivanti da aggettivi in –re, per meglio dire da aggettivi della seconda classe (facile, semplice) prendono il suffisso –ità, non –ietà.
Da elementare avremo, quindi, elementarità; da vario, invece, varietà. Il suffisso –ità, insomma, dal latino itas, itatis, si trasforma in –ietà quando la base (l’aggettivo) termina in –io: abitudinario, abitudinarietà; vario, varietà, per l’appunto.
Per gli scrittori di vaglia, insomma, la grammatica (e le sue leggi) non fa parte della loro cultura. Troppe parole grammaticalmente scorrette sono state immesse sul mercato della lingua da costoro tanto che alcuni termini palesemente errati sembrano, al contrario, correttissimi e viceversa.
Comproduzione, ad esempio, vocabolo correttissimo, è stato affossato da coproduzione, termine errato e messo sul mercato da gente senza scrupoli linguistici. Ci piacerebbe che qualcuno di costoro ci spiegasse per quale oscuro motivo comproprietà va bene e comproduzione no, preferendo, per l’appunto, la voce — ripetiamo — errata coproduzione. Attendiamo con ansia e gratitudine.
Noi, modestamente, insistiamo: per certi scrittori la grammatica non fa parte della loro cultura. Prendete un giornale qualunque, apritelo alle «pagine culturali» (ma non solo) e, se amate la lingua, ci darete ragione.
Gli scrittori che ci tengono, coloro ai quali piace che la s sia maiuscola, prestino attenzione se vogliono essere di vaglia (con la v minuscola) e non di... Vaglia. Vaglia, come forse saprete, è un piccolo paese della Toscana di nessuna importanza (con tutto il rispetto per gli abitanti). Uno scrittore di "Vaglia", quindi...
A buon intenditor poche parole.
Maribella
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Messaggio  Maribella Lun Ott 10, 2011 8:53 pm

Quando è nato il lei?

L’usanza di dare del lei in segno di rispetto verso la persona cui ci rivolgiamo si può datare, storicamente, attorno al secolo XV. Nei secoli precedenti — parlando o scrivendo — si dava del tu se ci si rivolgeva a una persona con la quale si aveva una certa familiarità e del voi, invece, se il nostro interlocutore era un personaggio di alto rango o con il quale non si era in confidenza. Vediamo, ora, come è nato il lei, pronome prima... sconosciuto.
L’avvento e il consolidarsi delle varie Signorie - a partire dal secolo decimo quarto - determinò, oltre a un sostanziale sconvolgimento delle condizioni politiche, economiche, sociali, culturali e di costume, nuove regole di vita; regole improntate all’insegna della raffinatezza più squisita e della solenne esteriorità.
Si capisce benissimo, quindi, come in tale habitat il formalismo divenisse regola di vita e come i cortigiani facessero a gara — nell’intento di accattivarsi la riconoscenza del potente — nelle manifestazioni ossequiose e molto spesso adulatrici nei confronti del padrone che — se non incoraggiava tali espressioni ossequiose — certamente non le disdegnava.
Nacque, così, l’usanza di indirizzare il discorso al signore non rivolgendosi direttamente a lui, cioè alla sua persona ma all’idea astratta di cui costui — nell’intento adulatore di chi parlava — era, per così dire, la personificazione: ci si rivolgeva, dunque, al sovrano adoperando, di volta in volta, titoli come Vostra Magnificenza, Vostra Signoria, Vostra Eccellenza e simili.
Questi titoli, nel Quattrocento, erano stati ufficializzati e nel parlare e nello scrivere si adeguava a questi la concordanza pronominale; si adoperava, cioè, ella, essa e lei in riferimento, per l’appunto, a vostra magnificenza, vostra signoria, ecc.
Tale uso si estese, molto rapidamente, nella prima metà del Cinquecento grazie soprattutto agli Spagnoli, presenti sul nostro patrio suolo, che gratificavano con titoli onorifici anche coloro che non avevano l’autorità signorile (le così dette persone comuni). Questo fatto accrebbe la popolarità del lei che, perso l’originario e specifico valore di forma di ossequio, divenne pura e semplice formula di rispetto, in diretto riferimento alla persona cui si indirizzava il discorso e lo scritto.
Occorre ricordare, anche, che l’uso del lei raggiunse solida e completa stabilità linguistica quando si cominciò ad adoperare questo pronome non più con funzione esclusiva di complemento ma anche — come è tuttora d’uso — in funzione di soggetto.
Da sottolineare, in proposito, il fatto che — poche persone lo sanno (?) — quando il predicato si riferisce a una persona-uomo si accorda, nel genere, con il maschile: Lei, signor direttore, è veramente buono (non buona).
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Messaggio  Maribella Lun Ott 10, 2011 8:53 pm

Intendere e capire

Ci sia consentito, ogni tanto, di peccare di presunzione, anche se non abbiamo la minima intenzione di fare il barbassòro, vale a dire di atteggiarci a persona che crede di avere grande importanza per autorità e per… sapienza.
Vogliamo solamente dimostrare che, contrariamente a quanto si creda, i verbi capire e intendere non sono completamente sinonimi: tra i due c’è una leggera sfumatura di significato. Vediamola assieme, sia pure per sommi capi.
Il primo, in senso lato, sta per contenere; il secondo, sempre in senso lato, sta per tendere (l’orecchio), quindi potremmo dire che equivale a sentire. Non si dice, infatti, che quel tizio non ha voluto intendere, cioè sentire ragioni?
Questa personale tesi è suffragata dall’etimologia dei due verbi e dall’autorità del Tommaseo il quale nel suo dizionario dei sinonimi scrive: «Quando, assolutamente, diciamo non capisce, neghiamo a quel tale capacità (da capire, NdR) di mente a ricevere qualsiasi cosa, almeno di quel genere di cui si ragiona; non intende riguarda segnatamente o tali parole o senso di quelle. Ed è men biasimo e spregio anche per questo, che nell’intendere ha parte l’azione, cioè la volontà (non ha voluto intendere ragioni, NdR); onde negare l’intendimento di tale o tal cosa non è sempre un negare l’intelligenza; dove il negare che altri capisca è un dire che il vaso è angusto e mal formato, un fare quasi disperata la cosa».
Ma vediamo l’etimologia dei due verbi in esame al fine di… capire bene come stanno le cose. Cominciamo proprio da capire. Come il solito, occorre rifarsi al latino. Capire, dunque, è la forma italianizzata del latino capere il cui primo significato era quello di prendere. Una volta passato nella lingua volgare – l’italiano – ha acquisito due distinte forme, una intransitiva e una figurata transitiva, con altrettanti distinti significati.
Il primo significato, intransitivo, derivato dall’originario latino prendere, fu quello di entrarci, esser contenuto, esser preso dentro qualche cosa e in questa accezione si adopera ancora oggi, soprattutto in poesia, nella forma originaria latina capere: questo non ci cape, cioè non c’entra, non può esservi contenuto.
Il secondo significato, quello figurato transitivo, vale sempre prendere, ma con la mente, con l’intelletto, con l’animo: non ti capisco più, vale a dire non ti prendo più con la mente; i tuoi discorsi non li capisco, cioè non li comprendo, non mi entrano nel cervello. Una persona stupida, quindi, non è in grado di capire ma può benissimo intendere, cioè sentire, anche se giuridicamente si dice che una persona non è in grado di intendere (di capire) e di volere.
Come si può ben vedere, quindi, la differenza tra intendere e capire è minima. Però, amici, c’è. E veniamo a intendere che, come capire, è figlio del nobile latino. È composto, infatti, della particella in (verso) e tendere (tirare): tirare verso qualcosa o qualcuno. In senso figurato volgere verso un termine, quindi volgere la mente, gli orecchi verso qualcosa. Di qui i significati figurati di sentire, udire, avere la volontà e… capire.
Non diciamo, infatti, non voglio capire ciò che mi stai suggerendo? Non ho voglia, non ho la volontà di stare a sentirti. Insomma, si perdoni il pasticcio: si può capire e non intendere come si può intendere e non capire. Nell’uso, però, i due verbi si equivalgono. La nostra era solo una puntualizzazione linguistica e non volevamo fare, ripetiamo, il barbassòro.
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Messaggio  Maribella Lun Ott 10, 2011 8:54 pm

vediamo anche qualcosa di grammatica...........



LA PROPOSIZIONE

Divisione della sintassi
La sintassi insegna usare e congiungere insieme le parole e le proposizioni in modo conforme tanto alle regole generali della logica, quanto alla natura speciale di una lingua. Da ciò ne deriva la distinzione che alcuni fanno fra sintassi generale comune a tutte le lingue, e sintassi particolare variabile in ognuna di esse.


Proposizione semplice
Qualsiasi pensiero della mente, quando è espresso con parole, forma una proposizione. Ogni proposizione si compone di almeno due parti: la cosa di cui si parla e quello che se ne dice. Per esempio: il capo comanda; io leggo; la bellezza piace; la candela illumina; il pane si cuoce; l'uomo è ragionevole; Aristotele fu dottissimo. La prima parte (il capo, io, la bellezza, la candela, il pane, l'uomo, Aristotele) si chiama soggetto, mentre la seconda parte (comanda, leggo, piace, illumina, si cuoce, è ragionevole, fu dottissimo) si chiama predicato.

Il soggetto deve essere sempre un sostantivo o qualunque altra parte del discorso usata come sostantivo; per esempio, il buono, il bello, il mio, il tuo, questo, quello, il vivere, il parlare, il prima, il poi ecc. (il leggere ricrea, questo piace, quello è brutto ecc.).

Il predicato può essere di due specie: verbale o nominale; è predicato verbale quando l'azione si compie nel solo verbo, per esempio il capo comanda, la bellezza piace, la candela illumina; è predicato nominale nominale quando l'azione si compie in un nome (od altra parola che ne fa le veci) che si accompagna al verbo, per esempio l'uomo è ragionevole; il savio è re; io non sono te; tu diventi ricco.

I verbi che possono avere compimento in un nome sono innanzitutto, fra quelli intransitivi, il verbo essere; quindi molti altri verbi che indicano principio, durata, cessazione, apparenza di essere, quali i verbi divenire, nascere, riuscire, restare, parere, apparire ecc. Per esempio: alcuni nascono ciechi, molti restano ignoranti, i presuntuosi sembrano dotti ecc.
Inoltre sono tali anche quei verbi transitivi che significano eleggere, nominare, stimare ed altri di significato simile, i quali si compiono nel nome della funzione, della denominazione o della qualità che si conferisce o si attribuisce a qualcuno, per esempio. eleggere re, nominare Giovanni, stimare dotto o ignorante ecc. o in costruzione passiva come esser eletto re, esser detto o chiamato Francesco, essere stimato, creduto, reputato buono o cattivo.
Quella che abbiamo fin qui descritta è la forma più semplice possibile della proposizione che si chiama appunto proposizione semplice.
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Messaggio  Maribella Lun Ott 10, 2011 8:56 pm

Anja
Interessante davvero!!
Per la grammatica io sono sempre stata molto negata, insomma non mi piace e le regole non riesco a farmele entrare in testa. Crescendo bilingue da sette anni in su, ciò mi aveva confuso un po'... però ho rimediato così come ho potuto. In pratica io uso la grammatica "letta e istintiva". Spiego meglio: spesso sono insicura e solo rileggendo la parola scritta nero su bianco riesco (non sempre) a "vedere" se la sto usando in modo errato. Se una parola mi "stona", la cambio. Insomma faccio come con i vestiti: se un colore lo trovo stonato, ne scelgo un altro, ihihihi!
Per ovviare a questa insicurezza e quando scrivo liberamente e di getto, nei testi corti amo molto storpiare le parole - è una delizia per me e mi diverte - quando invece scrivo testi lunghi spesso uso word perché mi corregge in automatico.
Qui sul forum mi piace che vi sia il tasto ANTEPRIMA che uso sempre prima di inviare. Eh sì, mi piace scrivere in lingua italiana

Ehi, lo sapevate che il Lei scritto in una lettera commerciale... da molti anni si scrive minuscolo? Nel Canton Ticino è molto in uso mentre in Italia si scrive quasi solo con la elle maiuscola. Anche la scrittura si è modernizzata, ihihihi!
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Messaggio  Maribella Lun Ott 10, 2011 8:56 pm

C’entra o centra?

La grafia corretta è quella citata in apertura: che c’entra e non c’entra.
Di norma, tuttavia, non sono tanto queste forme a destare dubbi, quanto contesti che richiedono l’uso di tali forme coniugate in tempi e modi verbali differenti, come Non vedo cosa possa *centrare/*centrarci questo [con l'asterisco si indicano forme non corrette], dove occorre ricostruire un infinito dall’indicativo presente solitamente impiegato.
Cercando l’espressione nei dizionari, in alcuni – ad esempio lo ZINGARELLI – la si trova inserita sotto entrare come una delle sue realizzazioni nell’uso; in altri, quali il GRADIT, lemmatizzata a parte nella forma all’infinito entrarci. Da un punto di vista formale, entrarci viene in questi casi classificato come verbo procomplementare, ossia «che si usa stabilmente con particelle clitiche procomplementari (ad es. svignarsela) o che, in quanto usato con tali particelle, assume valori specifici, autonomi rispetto al verbo di base (ad es. sentirsela, vedersela, ecc.)», secondo quanto spiegato proprio dal GRADIT.

Entrarci, che alla prima persona singolare è io ci entro (quindi con elisione io c’entro) è un derivato di entrare che compare in italiano sin dal 1533 con due significati, registrati sia nel GRADIT (qui citato) che nel GDLI:

1) con valore intensivo, ‘trovare posto, avere spazio sufficiente per stare in qualcosa’: in questa macchina c’entrano quattro persone; ‘essere contenuto’: il due nel quattro c’entra due volte;

2) per il caso che qui ci interessa maggiormente, in senso figurato con il significato di ‘avere parte, attinenza, relazione con qualcosa’: che c’entra questo con quanto è accaduto?, non c’entra niente, io non c’entro!, come nella nota locuzione entrarci come i cavoli a merenda –tra l’altro, usata quasi sempre nella forma c’entra come i cavoli a merenda e molto più raramente all’infinito.

Il verbo centrare, al quale queste espressioni vengono talvolta erroneamente ricondotte (quindi *che centra? e *non centra non sono in questo caso grafie corrette), ha un significato diverso. Ha anche una storia differente, in quanto deriva dal sostantivo centro con l’aggiunta della desinenza verbale -are, e secondo il GDLI la prima testimonianza italiana del suo impiego risale al 1797. Ancora per il GRADIT, i significati principali di questo verbo sono:

1) ‘colpire nel centro’: c. un bersaglio, c. il boccino;


2) In senso figurato: ‘cogliere, individuare con acutezza e precisione’: c. un problema, c. l’argomento; c. un personaggio, di un attore o un regista, interpretarlo o rappresentarlo correttamente evidenziandone le caratteristiche fondamentali . ‘Conseguire in pieno’: c. l’obiettivo;

3) ‘fissare nel centro’: c. il compasso; in fotografia e sim., inquadrare nel centro dell’obiettivo, del fotogramma o dello schermo: c. un soggetto, un’immagine sullo schermo [...].


Come si può notare, non ci sono sovrapposizioni di significato tra i due verbi; in parte è diversa anche la pronuncia, perché se c’entro richiederebbe una pronuncia con la e chiusa /c’éntro/ (cfr. DOP, io centro ha, come pronuncia più corretta, /cèntro/ con la e aperta, come indica nuovamente il DOP, mentre il GRADIT, particolarmente attento alla lingua dell’uso, registra come possibile pronuncia – seppure secondaria – anche quella con la e chiusa.

Consultando il sito BibIt Biblioteca Italiana, possiamo trovare vari esempi di impiego dell’espressione nella nostra storia letteraria. La si rintraccia in Confessioni di un italiano di Ippolito Nievo (1867, su BibIt è riportata l’edizione Garzanti del 1984) nel capitolo decimottavo, dove compare più volte, sia nella forma elisa che in quella non elisa:

- Che c’entra in tutto ciò la cameriera?
- C’entra , c’entra ... oh bella! c’entra perché ci entro io.
- È giovine e bella la cameriera?
- Fresca, perdio, e salda come un pomino non ben maturo: con certe imbottiture intorno che ricordano le nostre paesane, e una bocchina che a Genova non se ne vedono di compagne.
- Allora capisco perché c’entri tu, e perché c’entra lei.

Ecco invece un esempio da un componimento poetico, da Il congresso de’ birri: Ditirambo di Giuseppe Giusti, contenuta nelle Poesie (1847, su BibIt ediz. UTET, 1976):

Che c’entra il prossimo?
io co’ ribelli
sono antropofago,
non ho fratelli.

Un dato interessante è senz’altro anche l’uso effettivo delle varie grafie. Esaminando i dati raccolti tramite Google si verifica che la forma che c’entra, cercata come frase esatta, ci dà 2.390.000 risultati; la forma che centra 62.500; non c’entra 601.000 e non centra 156.000. È chiaro che questi dati andrebbero ulteriormente raffinati, perché non distinguono i casi di uso corretto del verbo centrare in contesti come l’arciere che centra il bersaglio. Le forme corrette sono comunque (fortunatamente) maggioritarie anche nell’uso.
A proposito delle forme dell’infinito, *c’entrare si ritrova 8.740 volte; *c’entrarci 4.460 volte, *centrarci, che, tranne rari casi (es. quella palla stava per centrarci) ricorre come errata ricostruzione delle espressioni esaminate, 8.950 volte; entrarci è ancora largamente maggioritario, con 122.000 occorrenze.

Infine una curiosità: l’espressione io c’entro è stata usata come slogan dell’Unione di Centro (UDC) nelle ultime campagne elettorali giocando esplicitamente sull’ambiguità tra il rimando al nome del partito – e quindi il riferimento al Cèntro – e il verbo entrarci. In seguito io c’entro è divenuto anche il nome ufficiale del social network degli Amici di Centro.
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Messaggio  Maribella Lun Ott 10, 2011 8:57 pm

Una volta tanto

Molte persone adoperano quest’espressione, sbagliando, con il significato di «ogni tanto, di quando in quando, una volta ogni tanto» e simili: Giovanni ha ragione una volta tanto (Giovanni ha ragione ogni tanto).

Il significato proprio dell’espressione è, invece, una sola volta.

È la locuzione omologa latina una tantum che significa, per l’appunto, «una volta per tutte, una volta sola».
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Messaggio  Maribella Lun Ott 10, 2011 8:58 pm

Perdere la trebisonda

Scartabellando tra le nostre cose ci è capitata sotto gli occhi una copia di Famiglia Cristiana di qualche anno fa e la nostra attenzione è stata attirata dalla rubrica di lingua tenuta da Claudio Marazzini.

Il linguista risponde a un lettore che chiede lumi circa l’origine dell’espressione Perdere la trebisonda. «Si ipotizza — scrive Marazzini — che la città di Trebisonda, sul mar Nero, non c’entri nulla, se non per il suono allitterante con tramontana (...). Pare non esistano altre spiegazioni».

Esistono, invece, e la città di Trebisonda c’entra, eccome. Questa città costituiva, un tempo, il maggior porto sul mar Nero e per i mercanti perdere la rotta per Trebisonda voleva significare perdere tutto il denaro investito per il viaggio.

Di qui il significato figurato (e noto) di «perdere la testa», «perdere le staffe» e simili.
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Messaggio  Maribella Lun Ott 10, 2011 8:58 pm

L'avverbio

Abbiamo notato che molte persone sono convinte che l’avverbio (come dice il termine latino ad verbum) si mette sempre vicino al verbo. No, non è così.
Questa parte invariabile del discorso che serve per modificare, graduare, precisare il significato o l’azione espressa dal verbo si può mettere vicino anche a un altro avverbio, a un aggettivo o a un nome. Quando diciamo, per esempio, che Paolo camminava lentamente precisiamo l’azione espressa dal verbo camminare; lentamente, per tanto, è un avverbio.
E a proposito di lentamente, vi siete mai chiesto il motivo per cui la maggior parte degli avverbi, particolarmente quelli di modo, finiscono in -mente? Donde deriva questa terminazione? Dal latino, come sempre.
Nella lingua dei nostri antenati latini era diffusissimo l’uso del complemento di modo formato con il sostantivo mente (ablativo di mens, mentis), che significa animo, cuore, mente, spirito e simili, preceduto da un aggettivo: serena mente (con animo sincero, sereno).
Poiché la disposizione era sempre la medesima, prima l’aggettivo, poi il sostantivo, i due termini finirono con l’essere pronunciati e scritti uniti (una sorta di univerbazione, insomma) assolvendo la funzione di avverbio di modo. Con questo sistema tutti gli aggettivi possono essere trasformati in avverbi di modo o maniera. Come?
Semplicissimo: si prende l’aggettivo, nella forma femminile, e si aggiunge il suffisso -mente. Da onesto avremo, quindi, il femminile onesta a cui aggiungeremo il suffisso -mente (onesta-mente): onestamente; da bello, bellamente; da magnifico, magnificamente; da stupido, stupidamente.
Va da sé che gli aggettivi della II classe, cioè quelli che finiscono in -e sia per il maschile sia per il femminile, non abbisognano di essere femminilizzati per avverbiarli; basta solo aggiungere il suffisso -mente: grande, grandemente; veloce, velocemente.
Da notare, però, che gli aggettivi che terminano in -le perdono la e finale prima di aggiungere il suffisso (-mente): facilmente (facile, facil, facilmente); docilmente; difficilmente. Un’ultima annotazione sul corretto uso degli avverbi.
Molte persone – complici alcuni vocabolari permissivi – fanno precedere gli avverbi che finiscono in -oni (-one) dalla preposizione a: Mario camminava a tentoni; Luigi stava a cavalcioni.
Quella a, a nostro modo di vedere, è spudoratamente errata. Da quando gli avverbi per reggersi hanno bisogno di una preposizione? Diciamo, forse, camminare a lentamente? Perché, dunque, alcuni vocabolari ammettono a tentoni, a cavalcioni ecc? E perché le così dette grandi firme seguono i consigli spallati di questi dizionari?
Per finire: qual è, generalmente, la posizione dell’avverbio? Quella vicino alla parola cui si riferisce. Di solito si colloca prima dell’aggettivo e dopo il verbo. Non c’è una legge, la posizione è libera. Si può mettere prima o dopo la parola che si vuole modificare, a seconda della sfumatura: presto verrò; verrò presto.
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Messaggio  Anja Dom Ott 16, 2011 10:10 pm


Grazie per averlo spostato qui Mary, ci tenevo molto a questo topic wub
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Messaggio  Maribella Gio Nov 03, 2011 11:01 pm

é un po' che rifletto e mi sono demoralizzata nel constatare che avremmo tutti bisogno di tornare sui banchi di scuola, i grandi scrittori e poeti si sono rivoltati, e continuano a farlo, nella tomba se leggessero quello che i nostri, ormai per me nipoti, figli.... ma i miei figli non abbrevviavano le parole o storpiavano, purtroppo lo si fa comunemente, non si usava la k a iosa come si fa ora, non scrivevano tipo "non" un mutilato nn e più di tutto mettevano la lettera maiuscola ai nomi di città e persone, è chiedere troppo di continuare a rispettare la nostra bella lingua italiana??? Ormai si è aperta la finestra e si usa buttar giù l'ITALIANO corretto. Peccato!
Ussignur, mi viene l'angoscia, chissà quanti errori ho sbattuto su questa pagina, ihihihih
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Messaggio  Anja Ven Nov 04, 2011 9:46 am


Infatti se ne parla spesso anche in tv: la scrittura sms va usata sui telefonini e basta! È un modo per avere più spazio di scrittura per i messaggini.
Purtroppo poi ci si fa l'abitudine, soprattutto i giovani e... così non sanno più scrivere una frase intera con tutte le cosine al posto giusto... male, molto male... icon_smile_sad

Pure io... spesso mi piace storpiare le parole, ma devo dire che lo faccio con gran gusto, anche solo per ridere un po'.
Poi naturalmente in un testo serio, m'impegno come posso. cuoricini
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Messaggio  maira Ven Nov 04, 2011 6:04 pm

Anch'io storpio il non e scrico 6 invece di sei.... solo in sl ....ma mi fermo qui, almeno credo... I miei ragazzi ormai scrivono solo cosi' ed e' un guaio, soprattutto perche' lo fanno e non se ne accorgono... icon_smile_wink
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Messaggio  Anja Ven Nov 04, 2011 6:21 pm


Storpiare le parole a me diverte molto (a dopos, sbacjuck, smackkkk e le tante scematine che scrivo nei testi frivoli).
Uso anche io le "sigle", ma solo negli sms però mi limito a scrivere "cn" per con, "nl" per nel, "nn" per non - oppure accorcio le parole.
Non sopporto molto la vista delle "k" al posto di chi, che, cosa, chiamo (ki, ke, kosa, kiamo).
Su testi di scrittura e nei forum invece queste cose mi... fan cadere le braccia. No, non mi piace e lo trovo diseducativo, nonché poco rispettoso per chi legge. Son fatta male? icon_smile_tongue icon_smile_big _ris
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Messaggio  Maribella Ven Nov 04, 2011 10:07 pm

A storpiare alcune parole così per gioco non ci trovo nulla di scandaloso, infatti uso scrivere "diti" ma è un modo come un'altro per scherzare e fin lì penso non ci sia nulla di male, il brutto è quando diventa abitudine quel tagliare le parole scrivere cmq al posto della parola intera o ihihih kappare k, perchè deturpare la propria lingua madre con: K & X?
esempio
A: Ke bello ke fa gg?
B: cs hai dtt?
A: K gg nn si fa nnt !
A: si inftt tt il pome fuori!
CONOSCIAMO LA NOSTRA LINGUA - Pagina 2 Nok_210
Cosa costa aggiungere qualche vocale? casca l'ernia??? Insomma se scrivi completo non ti si paralizza la mano, scrivere le parole corrette e per intero non porta via tre giorni di vita. Mi deprime questo modo di esprimersi. BESTEMMIA!!!! Questo non è esprimersi e per chi legge è mortificante. Non mi piace, se questa si può definire la moda di oggi, che tristezza, non stupiamoci poi degli errori di ortografia, sarò antica ma son ben contenta di esserlo, sia sul forum ma anche per i messaggi con il telefonino scrivo sempre per esteso perché a mio avviso l'accorciare e storpiare è un segno di mancanza di rispetto nei confronti di chi legge.
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Messaggio  Anja Sab Nov 05, 2011 12:48 am


A: Ke bello ke fa gg?
B: cs hai dtt?
A: K gg nn si fa nnt !
A: si inftt tt il pome fuori!


Orrore!!! _pam _giratesta
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